LEONARDO CUMBO

Valeria Dionisio (1997)

 

Leonardo Cumbo e’ l’abitatore solitario di un laboratorio caotico e polveroso che puoi incontrare nel cuore della Sicilia.
Apparentemente una patina grigia ruba agli oggetti le loro sagome. C’e’ odore di cantiere mentale sempre aperto, si calpestano lembi di stracci e pezzi di calce abbandonate. Mi incuriosisce, ad un tratto un colore sgargiante solo leggermente opacizzato da una polvere giovane, deve essere qualcosa che respira ancora! Ci si imbatte in un “organotraccia” che ha la forza fantasiosa e plastica di un carbone animato ironizzando quasi sulla problematicità che descrive o, forse, suggerisce. Che tutte quelle creature possono prendere vita pian piano nel riconoscerle. Nascosto tra attrezzi vari si propone il dramma della solitudine, riesco cosi’ a ricomporre l’ “attrazione gastrica”, divertito sbeffeggiamento della carnalità. Scorgo anche la soave “trappola per il tempo” con quella mano affusolata le cui dita protese hanno un potere magnetico. Curiosando qua e la’ provo a non pungermi con quei fili spinati che, pero’, hanno la particolarità di sembrare la parodia delle difficolta’ dell’esistenza o, meglio, di chi non riesce a gestirle. Anche la mela bacata dalla tecnologia sembra irridere chi non vuole prendere delle necessarie “metamorfosi”. Il cervello compresso dallo “schiacciapensieri”, deborda inconsapevole del suo destino e penso ad alcuni personaggi di Woody Allen alle prese con l’analisi della propria psicologia come un palloncino che sfugge sgonfiandosi all’impazzata viene, poi, tristemente consegnato all’analista strizzacervelli. Labbra e guance polpose si impongono dai putti esagerati i cui piedotti invitano a tastarne la consistenza. Sono anche le labbra e le guance del “risveglio” della pietra. Nonostante il naso importante, Leonardo Cumbo ha espressione e colori eterei del versante normanno della sicilianita’, immaginandolo arabo, le volumetrie corpose delle sue opere paiono snellirsi fino a dileguarsi.